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Infolampo: Landini – Istruzione

Landini: il sindacato è il vero cambiamento
Il primo intervento da segretario generale della Cgil. “La manovra del governo non cambia niente. Non è
vero che siamo invasi dai migranti, i numeri dicono il contrario. Il 9 febbraio riempiamo la piazza con
Cisl e Uil, per rimettere al centro il lavoro”
Il 9 febbraio in piazza con Cisl e Uil per rimettere al centro il lavoro. La manovra del governo è sbagliata,
non fa nulla per i lavoratori e per i poveri. Non è vero che siamo
invasi dai migranti: “Sono più gli italiani che vanno all’estero
che gli stranieri che arrivano in Italia”. Il sindacato è il vero
cambiamento, non certo questo governo. Sono alcuni temi che il
segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha toccato nel
suo primo intervento da leader, davanti alla platea del congresso
di Bari.
Landini ha iniziato ringraziando Susanna Camusso e
rivolgendole una proposta per il futuro. “Susanna, oltre che
salutarci, ci ha fatto molto pensare, ha detto cose importanti. Le
sirene della politica non la interessano, una scelta molto forte:
non solo è importante che rimanga nella Cgil, ma le chiedo di
avere un ruolo preciso. Le propongo due deleghe: una per
continuare la battaglia che ci ha portato vicino al sindacato
mondiale, una battaglia da proseguire per vincerla. L’unione dei
lavoratori di tutto il mondo non è uno slogan novecentesco, ma è
una necessità più che mai attuale: vorrei allora che Susanna Camusso rappresentasse la Cgil in giro per il
mondo. Non è una semplice delega, vogliamo averla come nostra ambasciatrice. Le chiederò poi di
assumere una delega al genere e allo sviluppo del genere. È un ruolo importante per un’evoluzione
culturale, per assumere la differenze come un valore, guardare le cose in un altro modo e proporre un
cambiamento. Cambiare è sempre difficile, ma serve a fare stare meglio chi è vicino a te e quindi a stare
meglio tutti insieme”.
Quindi un bilancio del congresso. “Abbiamo difeso la nostra idea di democrazia delegata e partecipata.
C’è un’organizzazione con oltre cinque milioni di iscritti, siamo così perché i delegati e le delegate ogni
giorni nei luoghi di lavoro ci mettono la faccia, senza di loro non saremmo niente. Questo è il nostro
valore aggiunto. Questa è la democrazia, che non c’entra niente col populismo”.
Landini ha bocciato con forza la manovra del governo. “Facciamo una critica di fondo – ha detto – : si
sono presentati alle elezioni in modo separato, poi hanno fatto un contratto, ma il punto davvero grave è
che non c’è alcun cambiamento nella politica che stanno mettendo in campo. Il nodo non è solo creare
lavoro, ma creare occupazione di qualità e con diritti. Oggi si può essere poveri anche se lavori: si fa
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27 gennaio, mai dimenticare. Per
impedire che ritorni l’orrore

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Istruzione, istruzione, istruzione. Alle origini del declino
economico italiano
Nel terzo trimestre del 2018 il PIL italiano ha registrato un segno negativo. Per la terza volta in pochi
anni l’Italia potrebbe entrare in recessione, senza peraltro aver mai raggiunto il livello di pre-crisi del
2007. Il declino italiano è ormai evidente, anche rispetto alla pur modesta crescita europea. Diversi
economisti riconoscono che non stiamo attraversando una semplice fase ciclica negativa, ma piuttosto
una crisi strutturale. Basta ricordare ancora che la produttività (totale dei fattori) è in tendenziale
diminuzione dagli anni ’90, del tutto in controtendenza con i nostri maggiori partner europei.
Scritto da: Maurizio Pugno
Le cause del declino economico italiano sono state indagate secondo due grandi prospettive: una si
concentra sulla struttura produttiva, l’altra sull’assetto e funzionamento politico-istituzionale. Meno
esplorata è una terza prospettiva, che si concentra sul ruolo del capitale umano non solo nella produzione,
ma anche nella società, e nello sviluppo delle capacità personali. Questa prospettiva invita a ricercare le
cause del declino economico italiano indietro nel tempo e all’origine della struttura produttiva e
istituzionale.
Uno degli indicatori più usati del capitale umano è l’istruzione. Benché sia un indicatore parziale, può
essere agevolmente osservato nella sua evoluzione durante lo sviluppo economico italiano. Le figure 1 e 2
mostrano, rispettivamente, il (logaritmo del) PIL pro-capite italiano, e il numero medio degli anni di
istruzione della popolazione, in entrambi i casi sono calcolati come differenza tra Italia e media europea. I
due grafici mostrano la stessa dinamica: in un primo periodo l’Italia si avvicina all’Europa, in un secondo
si muove insieme all’Europa, e nel periodo più recente se ne allontana drammaticamente.
Che il nostro paese fosse molto indietro nell’istruzione rispetto agli altri paesi è confermato anche dalle
recenti indagini sulle competenze linguistiche e matematiche della popolazione, in cui l’Italia compare
come penultima tra i 24 paesi dell’Ocse (indagini PIAAC). Né le indagini internazionali sulle competenze
degli studenti (PISA) ci posizionano molto meglio e con sufficienti progressi per ridurre il gap.
Questi recenti risultati così deludenti vengono da lontano, perché persino durante i mitici anni ’60 lo
sforzo per metterci in pari non fu sufficiente. Un contro-esempio è la Finlandia che partiva da un livello
d’istruzione della popolazione che era inferiore a quello italiano, ma nel giro di 10 anni ci superò, ed oggi
la Finlandia è tra i primi paesi nelle graduatorie mondiali sulle competenze degli studenti. Benché negli
anni ’90 l’Italia avesse raggiunto un livello di ricchezza paragonabile a quello europeo, come indicato
dalla figura 1, l’istruzione è rimasta indietro anche negli anni migliori, come indicato nella figura 2.

Il confronto fra le figure 1 e 2 ci mostra anche che la struttura produttiva italiana fino agli anni ’80 poteva
essere competitiva in Europa con un’occupazione relativamente meno istruita. Infatti, né la produzione di
tipo fordista degli anni ’60, né la produzione dei distretti industriali degli anni ’70 e ’80 aveva bisogno di
lavoratori particolarmente istruiti. Il ‘modello di crescita’ di quegli anni era infatti basato sulle
esportazioni via competitività di prezzo, mantenuta con la disoccupazione a partire dal 1964, e con le
ripetute svalutazioni della lira negli anni ’70, ’80 e ’90.
L’Italia si è trovata dunque impreparata quando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione
(ICT) resero evidente la necessità di avere lavoratori istruiti per rivoluzionare i metodi di produzione, né
sembrava possibile mantenere il vecchio modello produttivo davanti alla nuova concorrenza proveniente
dai paesi asiatici. Ma non per questo si può dire che la riconversione sia stata ostacolata dalla scarsità di
lavoratori istruiti. In tal caso infatti il rendimento dell’istruzione universitaria avrebbe dovuto aumentare,

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