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Infolampo: Landini – benicomuni

Maurizio Landini è il nuovo segretario della Cgil
Eletto con oltre il 92% dei voti dall’assemblea generale. Occorre un grande impegno per il successo della
manifestazione unitaria del 9 febbraio. Al governo: “Serve una legge sulla rappresentanza”. Non si
cambia il Paese senza il mondo del lavoro
Maurizio Landini è stato eletto segretario generale della Cgil dall’assemblea del primo sindacato italiano
che si è riunita al termine dei lavori del XVIII congresso nazionale. Landini ha ottenuto 267 voti a favore,
pari al 92,7% dei votanti. I no sono stati 18, 4 gli astenuti e una
scheda bianca.
La pluralità come ricchezza. L’unità nella Cgil e la partecipazione:
nel sindacato e nel mondo del lavoro. Per una società inclusiva che
non lasci indietro nessuno. Maurizio Landini ha spiegato alla
platea dell’assemblea generale della Cgil – appena eletta al
congresso di Bari – le linee programmatiche che, in caso di
elezione, saranno alla base del suo mandato. “Sin da quando
Susanna Camusso ha proposto il mio nome – ha detto il candidato
alla segreteria generale della confederazione – ho sperato con tutto
il cuore che quella indicazione potesse essere condivisa da tutte le
organizzazioni e diventare così una proposta utile per un progetto
unitario di azione sindacale, per i diritti e la libertà nel lavoro, una
vera lotta alle disuguaglianze della nostra società e per unificare
tutto il mondo del lavoro”. E il fatto che si sia arrivati a una
proposta unitaria, “mi emoziona molto ma, contemporaneamente,
mi fa sentire anche il peso di una grande responsabilità”. E poi: “Considero un valore importante quello di
essere stati capaci, dopo una complessa e articolata discussione, di trovare una soluzione unitaria e
complessiva”. L’unità, d’altro canto, “è quello che ci chiedono tutte le nostre iscritte e iscritti” e la
grandezza della Cgil è nell’essere un soggetto collettivo, perché gli “interessi collettivi vengono prima di
quelli personali”.
L’ambizione della Cgil, ha aggiunto Landini, è stata sempre quella “non solo di cambiare il lavoro dentro
la fabbrica, ma anche quella di cambiare la società fuori dalla fabbrica, fino a quando le persone non
tornino ad avere la dignità che spetta loro”. Una sfida alta, perché “siamo di fronte a una precarietà nel
lavoro e a una frantumazione sociale e della rappresentanza politica del lavoro e della sinistra senza
precedenti nella storia del nostro paese”. Un contesto complesso, per il candidato alla guida della Cgil, e
proprio per questo “abbiamo bisogno di saper tenere insieme le nostre differenze che devono essere un
valore aggiunto e non un elemento che porta a dividerci. Contemporaneamente dobbiamo innovarci e
aprirci, soprattutto verso le nuove generazioni”.
E proprio in questa direzione si è mossa in questi anni la Cgil, dall’allargamento della discussione e della
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Reddito di base, cosa possiamo
imparare dalla Finlandia

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La tragedia dei beni comuni e l’inganno della scarsità
inevitabile
di Andrea Pannone
1. I beni comuni, la tragedia, le forme di regolazione
Un’idea ancora molto consolidata tra gli economisti e politici è che un’ampia gamma di risorse, sia
naturali (come foreste, oceani e altre risorse rinnovabili) sia costruite dall’uomo (come sistemi di
irrigazione, reti elettriche, spettro elettromagnetico, Internet, ecc.), potenzialmente utilizzabili da tutti i
membri di una comunità, debbano essere necessariamente sottoposte a regolazione: o da parte del
mercato, attraverso la definizione di precisi diritti di proprietà che proteggano l’uso esclusivo delle risorse
da parte di chi le acquista, o dallo Stato, attraverso l’emanazione di leggi che ne limitino le possibilità di
utilizzazione individuale e collettiva. Se infatti tutti potessero usare liberamente (ossia senza alcuna forma
di regolazione) queste risorse, si sostiene, allora esse, prima o dopo, si esaurirebbero oppure verrebbero
pesantemente danneggiate, con effetti futuri negativi per l’intera comunità. E’ il cosiddetto problema della
tragedia dei beni comuni (tragedy of commons)[1] che configura, per questo tipo di risorse, un conflitto,
de facto insanabile, tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo. Nel seguito di questo scritto
mostreremo come, in realtà, questo conflitto possa essere razionalmente evitato.
2. Il bene comune come un ibrido e l’apparente ‘soluzione’ di Elinor Ostrom
Da un punto di vista economico, come noto, un bene comune (ad esempio un lago) è un bene particolare,
un ibrido tra un bene privato e un bene pubblico: al pari di un bene privato è a consumo “rivale” (se io
pesco nel lago, tu avrai meno pesce a disposizione), come un bene pubblico è a consumo “non
escludibile” (tutti possono pescare nel lago). Se si decidesse di affidare la gestione del lago alle leggi di
mercato, qualcuno comprerebbe il laghetto e venderebbe i diritti di pesca ai membri della comunità
disposti ad acquistarli. Se, al contrario, la gestione fosse affidata allo Stato, esso stabilirebbe leggi,
controlli e sanzioni, per regolare e limitare le modalità di accesso al lago. Ad ogni modo, l’evidenza
storica relativa alla gestione di risorse comuni ha mostrato come entrambi le soluzioni, privatistica o
statalista, quando non totalmente inadeguate, presentino gravi limiti nell’evitare ‘la tragedia’. (si veda ad
esempio Stavins 2011). Fortunatamente, l’imponente lavoro sperimentale su diverse comunità locali
dell’Asia e del Sud America realizzato da Elinor Ostrom (1933-2012), premio Nobel per l’economia nel
2009, ha permesso di evidenziare che, per la gestione dei beni comuni, non ci sono solo Stato e mercato;
c’è anche l’auto-organizzazione degli utilizzatori: la comunità locale si dà proprie regole (non
necessariamente formalizzate) e stabilisce sanzioni per limitare il consumo della risorsa (ad esempio la
comunità locale dei pescatori fissa regole per limitare il tempo di pesca nel lago e/o la quantità di pesce
pescabile). In questo modo ‘il sacrificio’ individuale condiviso (ciascuno pesca meno pesce di quanto
vorrebbe fare) permetterebbe la conservazione della risorsa nel tempo (la consistenza della fauna ittica del
lago) in funzione del benessere della collettività nel lungo periodo[2]. In generale la Ostrom (1990) ha
identificato 8 regole per la governance dei beni comuni. Più che di regole, si tratta di ‘costanti’ rilevate
dallo studio di casi concreti. Secondo la Ostrom, infatti, non esistono modelli applicabili universalmente
ma è necessaria l’elaborazione endogena di regole e istituzioni per la loro applicazione. In sintesi le
regole sono: 1. Identificazione chiara dei confini della risorsa e assunzione di criteri trasparenti per
l’ingresso degli utilizzatori. 2. Proporzionalità fra costi e benefici. 3. Partecipazione alle decisioni sulle
regole da adottare. 4. Monitoraggio continuo delle condizioni biofisiche della risorsa e del
comportamento dei fruitori 5. Repressione delle infrazioni con sanzioni graduali. 6. Effettività dei
meccanismi di risoluzione dei conflitti fra gli attori coinvolti. 7. Diritto (costituzionalmente garantito)
degli usuari di organizzarsi e organizzare. 8. Istituzioni a più livelli per la governance della risorsa.
In base alla visione della Ostrom, supportata come detto da molteplici studi empirici condotti a livello
locale, gli individui di una comunità possono evitare la tragedia dei commons rinunciando alla
massimizzazione del bene individuale in funzione della conservazione per tutti dei benefici della risorsa
nel lungo periodo. Questo può essere garantito, dagli stessi membri della comunità, attraverso la
creazione di istituzioni capaci di prevedere sanzioni e punizioni per il rispetto dei protocolli di gestione
del bene comune. La dimensione circoscritta delle comunità osservate dalla Ostrom era tale da rendere
più improbabili le violazioni, non solo perchè non è facile nascondersi ma anche per il senso di vergogna
e colpa che un potenziale trasgressore proverebbe per aver tradito la fiducia di parenti e amici (vedi
Rifkin 2013 p. 221). Quindi, nonostante questo modello di gestione sia, a parere di chi scrive, ben più
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