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Infolampo: Lavoro – UE

Lavoriamo meno, non lavoriamo tutti
Nel 2018 il totale degli occupati è tornato sui livelli pre-crisi. Ma se osserviamo bene i dati, scopriamo
che le retribuzioni e il numero di ore sono in calo, mentre continua a crescere il part time involontario
di Giuliano Guietti
Il 2018 è stato l’anno del sorpasso. Il totale degli occupati in Italia è tornato sugli stessi livelli di prima
della crisi. Ne ha dato conto Istat nelle sue rilevazioni, in particolare in quella relativa al secondo
trimestre 2018, che rappresenta il momento esatto del sorpasso.
In realtà in alcune delle regioni italiane questo traguardo era
stato raggiunto già da tempo. In Emilia-Romagna con due anni
d’anticipo, nel secondo trimestre del 2016. La stessa cosa in
Lombardia; altre regioni del centro e del nord c’erano arrivate
anche prima. Viceversa, nel Sud la sola Sardegna ha centrato
l’obiettivo e l’ha fatto proprio nell’ultima rilevazione trimestrale,
quella riferita al terzo trimestre 2018.
Anche se i numeri totali alla fine si assomigliano, nel confronto
con il periodo pre-crisi cambia molto però la composizione di
quella popolazione occupata: crolla la percentuale di
indipendenti e aumenta quasi nella stessa dimensione la quota
dei lavoratori dipendenti a termine; calano i maschi e aumentano
le femmine; calano molto i giovani e crescono i più anziani, dai
45 anni in su. Cresce moltissimo infine la quota dei lavoratori
part-time, che nel volgere di 10 anni passano in Italia dal 13,6% del totale (anno 2007) al 18,7% (anno
2017). In una regione particolarmente sviluppata, come l’Emilia-Romagna, l’exploit è ancora più evidente:
dal 12,9% al 18,8%. Ma anche in molte regioni del Sud, a partire dalla Puglia e dalla Sicilia, la crescita è
imponente. Quest’ultimo dato ci introduce a un tema spesso sottovalutato quando si parla di mercato del
lavoro: anche se gli occupati sono tornati all’incirca ai valori pre-crisi, non è affatto così per la quantità di
lavoro, ovvero per le ore lavorate.
Per approfondire meglio questo punto dobbiamo però fare riferimento a un’altra serie di dati Istat: non più
quella, sin qui utilizzata, frutto della rilevazione campionaria sulle forze di lavoro, bensì quella che deriva
dai conti economici nazionali e territoriali. Cambia la base di riferimento, che non sono più i residenti in
un determinato territorio, ma le attività economiche in esso insediate: in tal modo questi dati offrono una
stima non solo degli occupati, compresi quelli irregolari, ma anche delle unità di lavoro, delle posizioni
lavorative e delle ore lavorate nel corso di ciascun anno. Ebbene, la serie storica relativa agli occupati
conferma che nel 2017 eravamo già su valori molto prossimi a quelli del 2007: appena inferiori (-0,7%) a
livello nazionale; appena superiori (+0,8%) in Emilia-Romagna. Ma le ore lavorate restavano, in un caso
e nell’altro, ancora molto al di sotto dei valori del 2007. A questo proposito l’ultimo dato disponibile è
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La volta buona

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Per salvare l’Unione torniamo al Trattato
Il riconoscimento del fallimento della vecchia politica è la premessa per definire un nuovo quadro
politico basato sull’uso della moneta unica e le prossime elezioni europee potrebbero aprire nuovi
scenari. Il deficit fino al 3% stabilito a Maastricht potrebbe ridare spazio agli Stati per gestire la politica
fiscale
di Antonio Lettieri
La lunga controversia tra l’Italia e le autorità della zona euro è stata risolta all’ultimo minuto. Non è stata
attivata la procedura per “disavanzo eccessivo” nei confronti dell’Italia, una misura senza precedenti
nell’area dell’euro fin dalla sua fondazione. Dobbiamo chiederci se questo scontro sia stato un semplice
incidente di percorso o piuttosto la manifestazione di una rottura del motore che ha dominato l’eurozona
negli ultimi due decenni. Vale la pena ricordare che il conflitto aperto dalla Commissione europea contro
il nuovo governo italiano riguardava alcuni decimali del deficit di bilancio del 2019. Per collocare la
disputa in una prospettiva più ampia, bisogna tornare alla natura delle sfide che hanno caratterizzato
l’eurozona nell’ultimo decennio dopo la crisi finanziaria prima esplosa negli Stati Uniti e poi in Europa.
Alle origini della crisi
La crisi dell’autunno del 2008, ufficialmente iniziata con il fallimento negli Stati Uniti della banca
Lehman Brothers, fu considerata la peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Ma nei due anni
successivi, il timore di una catastrofe economica era stato scongiurato. Il contagio, invece, si estese
all’’Europa causando recessione e disoccupazione di massa.
Fu in queste circostanze che Mario Draghi, il nuovo presidente della Banca centrale europea (BCE), con
un famoso discorso a Londra nel luglio 2012, annunciò quella che sarebbe diventata una decisione
storica: “All’interno del nostro mandato – disse – la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare
l’euro e, credetemi, sarà sufficiente”
In effetti, posta in una prospettiva più ampia, la dichiarazione non era così sorprendente. Ben Bernanke,
presidente della Fed, la Banca centrale degli Stati Uniti, si era già mosso in quella direzione nei primi
giorni della crisi, fornendo al paese una liquidità illimitata al più basso tasso di interesse della storia
americana. Era il lancio del Quantitative easing (QE) – in sostanza, l’immissione di liquidità da parte
della BCE tendente fondamentalmente ad ampliare gli spazi di manovra monetaria da parte del sistema
bancario degli Stati membri.
Ma non solo. Nei mesi successivi, Barack Obama, subito dopo la sua ascesa alla Casa Bianca, aveva
deliberato lo stanziamento di 800 miliardi di dollari destinati sia al salvataggio di aziende in pericolo di
bancarotta – come nel caso della General Motor e della Chrysler – sia al sostegno di milioni di americani
che avevano perso il lavoro.
L’Europa arrivò in ritardo ad adottare il QE, nel marzo 2015, quasi sette anni dopo l’inizio della crisi,
quando una recessione devastante aveva già provocato il più alto livello di disoccupazione degli ultimi
settant’anni, prima colpendo i paesi più piccoli dell’eurozona, come l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia, e
poi la Spagna.
E’ necessario tornare al 2013, quando i governi dell’eurozona adottarono il cosiddetto Fiscal compact:
cioè l’impegno di ogni stato membro dell’UE a pervenire alla parità del bilancio e ad avviare la riduzione
del debito pubblico fino a raggiungere la soglia magica dei 60 per cento del PIL. E’ anche utile ricordare
che il Parlamento europeo non aveva discusso e tanto meno approvato una scelta destinata a prolungare e
intensificare la crisi in atto – una misura imposta dalla Germania con l’acquiescenza della Francia di
Hollande, e subita senza batter ciglio dai governi europei.
In sostanza, la politica monetaria diventava il cane da guardia della politica dell’austerità:
fondamentalmente, della riduzione della spesa pubblica e dei salari. Mentre la soluzione della crisi veniva
affidata alle cosiddette riforme strutturali: in altre parole, all’adozione di politiche neoliberiste centrate
sulla liquidazione del potere contrattuale dei sindacati, la definitiva liberalizzazione del mercato del
lavoro e un’ondata di privatizzazioni.
Austerità e riforme strutturali
Proprio come nel mondo fisico, non ci sono vuoti nel mondo della politica ..
In Germania, l’euroscettica Alternativa per la Germania (AFD) è diventato il terzo partito federale nelle
elezioni del 2017, togliendo voti dalla “corazzata” CDU-CSU e alla SPD che negli ultimi settant’anni

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trattato