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Infolampo: Decreto dignità – Voucher

Decreto dignità: vorrei, ma non posso
Treves (Nidil Cgil) a RadioArticolo1: “L’idea di contrastare la precarietà del lavoro è apprezzabile, ma
si scontra con la limitatezza delle intenzioni. Sono provvedimenti timidi e inadeguati, e non è affatto vero
che il Jobs act sia stato stracciato”
“Se il governo vuole davvero affrontare il tema della dignità del lavoro, cominci ad esaminare la legge
d’iniziativa popolare Cgil sui diritti dei lavoratori, dove abbiamo provato a far discendere le norme dai
principi costituzionali, che devono comunque abbracciare
sia i lavoratori subordinati che quelli non subordinati. La
nostra proposta è nella disponibilità del Parlamento e può
essere incardinata e quindi oggetto di discussione e
dibattito”. Così Claudio Treves, segretario generale Nidil
Cgil, oggi ai microfoni di RadioArticolo1, a proposito del
dl dignità del ministro del Lavoro e dello Sviluppo
economico Luigi Di Maio.
“Diciamo subito che c’è un po’ di confusione nel
provvedimento dell’esecutivo. Di sicuro, l’intento di
contrastare la precarietà del lavoro è apprezzabile, ma si
scontra con la limitatezza delle intenzioni. Al contrario di
quanto fece il governo Renzi, stavolta si reimmette
l’obbligo delle causali, nell’ambito dei contratti a termine.
Ma il dl Di Maio non dice nulla sul lavoro intermittente,
che negli ultimi mesi ha avuto una crescita esponenziale.
Allora, se davvero si vuole attivare un’azione contro la precarietà, bisogna tenere insieme i pezzi, perché
altrimenti l’azione è inefficace; anzi, si corre il rischio che tutti passino proprio al contratto intermittente.
Oltretutto, siccome la reintroduzione delle causali avviene esclusivamente per contratti successivi a
termine, quindi non il primo, il combinato disposto può incentivare paradossalmente l’esplosione di
contratti a termine brevi, ovvero il massimo della precarietà possibile. Dovendo dare un voto, siamo sul 5
meno meno, se non sul 4!”, ha affermato il dirigente sindacale.
“Sulla tutela rispetto ai licenziamenti, il dl dignità rende un po’ più costosa l’indennità che il giudice
chiede di pagare al datore di lavoro, qualora abbia giudicato illegittimo il ricorso al licenziamento.
Peccato che il maggior costo non si accompagni al ripristino dell’articolo 18, cioè al diritto alla reintegra
del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, nella versione ante Jobs act. Il fatto che il
licenziamento illegittimo costi di più è una risposta troppo timida rispetto agli impegni che lo stesso
attuale ministro del Lavoro aveva assunto in campagna elettorale. Oltretutto, nel provvedimento si tace
sui vizi di motivazione, che restano punibili con una ‘mancetta’ da sei a dodici mesi e nulla si dice nella
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Boeri continua a interpretare altri
ruoli anziché rendere conto
attività Istituto

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Uscire dal labirinto di voucher e bonus bebè
Cosa accadrebbe se l’attuale miriade di piccole misure tra voucher e bonus bebè fosse semplificata in
una prestazione unica? Due esperti hanno fatto i conti, con risultati sorprendenti
di Dimitri Lorenzani, Edlira Narazani
Recenti studi sul sistema italiano delle prestazioni assistenziali a supporto delle famiglie dipingono un
welfare frammentato e inaccessibile. Chiara Saraceno e Wolfgang Keck lo hanno definito “familistico e
senza supporto”. In altre parole, l’Italia presenta un’offerta ridotta sia di politiche a sostegno della famiglia
sia di adeguati servizi per l’infanzia, specialmente nel caso di bambini sotto i tre anni. La percentuale di
questi ultimi inseriti in strutture formali per l’infanzia nel 2015 ammontava infatti al 34,4%, un valore
basso seppure in incremento rispetto a quello dell’anno precedente (22,9%). Inoltre, l’accesso a tali servizi
per madri di origine non italiana è ulteriormente limitato, sia per asimmetrie informative, sia per
l’esistenza di requisiti complessi e non sempre giustificati, oltre che per posizioni di svantaggio sul
mercato del lavoro che non vengono poi compensate da adeguate politiche pubbliche di supporto
all’impiego.
Il gender gap tutto italiano
In assenza di una strategia integrata di supporto alle donne e alle famiglie, l’Italia resta lo stato
dell’Unione europea con il tasso più basso di occupazione femminile (48,9% nel 2017) dopo la Grecia
(44,4%) e il cosiddetto gender gap, che misura la differenza fra i tassi di occupazione maschile e
femminile, si attesta a circa 20 punti percentuali in media.[1] Altri indicatori che confermano disparità di
genere sono la durata della vita lavorativa, di 9,5 anni più breve per le donne che per gli uomini contro
una media Ue di 4,9 anni, e la proporzione di lavori part-time, al 32,7% per le donne contro l’8% per gli
uomini. Questi indicatori medi celano importanti differenze regionali (con tassi d’inattività femminile più
alti nel Meridione) e legate al livello d’istruzione. La cura dei figli sembra essere una causa fondamentale
dei bassi tassi d’impiego femminile: circa l’80% delle donne licenziatesi nel 2016 aveva figli e il 40% di
loro ha dichiarato di aver ceduto a difficoltà nel conciliare la vita lavorativa con le esigenze famigliari.[2]
Le donne con livelli d’istruzione più bassi sembrano anche maggiormente condizionate, nella propria
scelta di lavorare, dai costi della cura dei figli e dai disincentivi del sistema fiscale e previdenziale,
specialmente in caso di coniugi a basso reddito.
Voucher e bonus, cosa non ha funzionato
Come evidenziato dalla Commissione europea nel suo Rapporto Paese 2018 sull’Italia, le misure adottate
finora per far fronte ai bassi tassi d’impiego femminile difettano di pianificazione strategica e valutazione.
Negli anni recenti i provvedimenti che hanno tentato di rispondere alle esigenze delle madri lavoratrici in
materia di assistenza all’infanzia hanno avuto per lo più carattere temporaneo, regole poco chiare e
sovrapposizione di beneficiari.
In questo contesto, sono quattro le indennità familiari principali attualmente in vigore:
•il voucher baby-sitting (nel periodo 2017-2018 le lavoratrici madri possono richiedere, entro gli 11 mesi
successivi al termine del congedo di maternità, un contributo per il pagamento di servizi di baby-sitting o
dell’asilo nido per un periodo massimo di 6 mesi);
•l’assegno di natalità o bonus bebè (somma mensile di 80 euro corrisposta per 3 anni alle famiglie con un
figlio nato o adottato nel periodo 2015-2017 e un indicatore della situazione economica equivalente, Isee,
non superiore a 25.000 euro);
•il bonus mamma domani (premio una tantum di 800 euro per la nascita o l’adozione di un minore dal
2017);
•l’assegno di maternità (prestazione assistenziale concessa dai Comuni alle madri sotto certe soglie di
reddito per la nascita o l’adozione di un minore).
Tra le misure minori figurano anche la possibilità di scambiare il congedo parentale con voucher per
l’acquisto di servizi di baby-sitting, maggiore flessibilità lavorativa e l’estensione del congedo di paternità
da due a quattro giorni. Tuttavia, in assenza di adeguati incentivi al congedo di paternità, il suo uso resta
limitato.
Se ci fosse un’unica prestazione per le lavoratrici madri
Una razionalizzazione delle indennità alle donne con figli, per esempio a favore di un’unica prestazione,
collegata all’attività lavorativa delle donne e quindi capace di favorirne la partecipazione al mercato del
lavoro, è stata più volte oggetto di discussione in Italia ma senza reali conseguenze. Su questa base, la
Commissione europea si è avvalsa del ‘modello Euromod'[3] per simulare l’effetto che avrebbe tale
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