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Infolampo: Montedipietà – robot

Anche il Monte di Pietà finì straniero
Credito su pegno: Unicredit l’ha ceduto ad una casa d’aste austriaca. In ballo non solo i problemi e la
sorte (anche contrattuale) dei dipendenti. A rischio un presidio di legalità e sostegno a fasce sociali
deboli, specie delle aree del Mezzogiorno
di Giorgio Frasca Polara
Quello che era un sospetto si è rivelata invece una inquietante realtà: Unicredit ha ceduto (a caro prezzo)
tutti e 35 i Monti di Pietà sparsi per l’Italia alla potente casa d’aste austriaca Dorotheum: un sistema che
oggi, nelle filiali della Penisola, genera impieghi per 200 milioni di euro e 33mila prestiti al mese.
L’accordo, vincolante, scatta con il prossimo 1 gennaio, Antitrust permettendo. Gli è che, con questa
operazione, la Dorotheum diventa il primo operatore del credito su pegno e il più grande operatore in
Europa. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato lo consentirà? L’operazione è soggetta alle
consuete condizioni sospensive, inclusa appunto la vigilanza. Ma l’Antitrust non ha ancora esaminato il
contratto, e dovrà naturalmente farlo naturalmente in tempi brevi, entro un mese.
E’ chiaro che, attraverso l’acquisizione di tutti i Monti di Pietà, Dorotheum intende espandere le proprie
attività in Italia attraverso la conquista di un canale inusuale ma assai redditizio per la casa d’aste più
importante e, ad affare concluso, il più grande operatore d’Europa. Anche per Unicredit la cessione di
questo settore si traduce in un affare. L’accordo prevede infatti non solo il pagamento a Unicredit (cioè
alla chiusura del contratto, ammesso che l’Antitrust non abbia a che ridire) da parte di Dorotheum di 141
milioni, ma anche di un potenziale earn-out (l’assicurazione sui risultati futuri dell’operazione) sino a 10
milioni da corrispondersi dopo tre anni.
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2017/12/15/8209/anche-il-monte-di-pieta-fini-straniero

www.lettera43.it
Perché l’invasione dei robot nel lavoro non sarà così
traumatica
Gli studi apocalittici sull’avvento dell’informatica e dell’intelligenza artificiale e sui posti polverizzati?
Un’esagerazione. I processi digitali affiancheranno l’uomo. Senza soppiantarlo. Ma bisogna essere
pronti.
di Mario Margiocco
Dopo oltre 40 anni incominciati al tornio e finiti al computer, Sandro sta lasciando una grande azienda
metalmeccanica dell’Italia Nord occidentale. «Oggi prepariamo pezzi meccanici di straordinaria
precisione, e tutto con un software mirato e in automatico, in pratica. Ma io sono uno degli ultimi in grado
di fare le stesse cose al vecchio tornio seguendo le specifiche scritte su un foglio. Si acquista e si perde,
come sempre». Sandro incominciava negli Anni 70 in una famosa scuola professionale, la Calcinara di
Genova-Sestri. I suoi giovani colleghi oggi sono spesso periti informatici.
LA RIVOLUZIONE GIÀ NEL 2030? Ogni tanto arriva un allarme sulle macchine che stanno
soppiantando l’uomo. McKinsey, nome semi-magico, pensatoio e consulenza, abituata a gettare lo
sguardo molto oltre e a volte fin troppo, ha parlato recentemente di 800 milioni di lavoratori che verranno
sostituiti dai robot, su scala mondiale, entro il 2030. Il 2030 è domani e sembra, quella di McKinsey, una
notevole esagerazione. Sarebbe come sostituire la manodopera di tutti i lavoratori dell’Europa, del Nord
America, del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, e sembra un po’ troppo, anche perché una parte
notevole di quei lavori il robot proprio non li può fare e l’automazione più di tanti non ne può sostituire.
PREVISIONI ASSURDE ANNI 50. Una rivista di quelle che dominavano le sale d’attesa dei dentisti nei
primi Anni 50 profetizzava per il 1960 una Roma piena di nuovi palazzi con eliporti sul tetto e un grande
traffico di elicotteri nel cielo della capitale italiana. Chi li ha visti? Le previsioni di oggi sul lavoro sono
tuttavia meno peregrine di quelle di qualche architetto futurista, o giornalista di Oggi o Gente degli Anni
50. Ormai lo scetticismo, su questi temi, è sinonimo di ignoranza o grande disattenzione.
Il lavoro in alcune realtà come quella bancaria o – mondo molto più piccolo ma significativo – nei
giornali, è stato stravolto dalle nuove tecnologie. Persino una semplice falegnameria artigianale non
lavora più come prima: le misure si impostano al computer e poi la macchina collegata taglia i pezzi
richiesti. E questo ormai da 10 anni e più.
AVVERTIMENTO DI BILL GATES. Bill Gates, il patron di Microsoft, ha ripetutamente avvertito che la
robotica e gli algoritmi più avanzati potranno eliminare molto lavoro umano. Il World Economic Forum,
con cifre più credibili di quelle di McKinsey, prevede che in pochissimi anni, da qui al 2020,
l’automazione si porterà via nei 15 Paesi più avanzati, Italia compresa quindi, circa 5 milioni di posti di
lavoro. Fossero soltanto la metà, sarebbe comunque una perdita pesante.
NON CONOSCIAMO I VERI RISCHI. Al recente Web Summit di Lisbona, a novembre (si tiene dal
2009), il noto fisico Stephen Hawking ha parlato dell’intelligenza artificiale, delle prospettive e dei rischi
che prefigura. «Non sappiamo come andrà a finire. Non sappiamo se ci aiuterà enormemente. O se
saremo ignorati da questo sviluppo, emarginati, e alla fine rovinati».
In Homo Deus. Breve storia del futuro, uscito in Italia a maggio 2017 e ben posizionato nelle vendite,
l’israeliano Yuval Noah Harari dell’Università ebraica di Gerusalemme intravede una tecnologia che
rischia di marginalizzare l’uomo. I toni sono visionari, ma la visione di un uomo reso superfluo dalle sue
stesse realizzazioni affascina, perversamente, molti.
CATASTROFISMO RIDIMENSIONATO. È in qualche modo tranquillizzante, si fa per dire, la risposta
a tutte queste visioni più o meno apocalittiche di Barry Eichengreen, professore a Berkeley e uno dei
massimi storici dell’economia e della moneta. Vari rapporti come quello citato di McKinsey danno la
sensazione che l’innovazione tecnologia e la distruzione di posti di lavoro stiano accelerando
drammaticamente, «ma non è questo il caso», sostiene Eichengreen in un intervento per Project
Syndicate, autorevole agenzia euro-americana di grandi firme ripresa dai maggiori organi di informazione
di tutto il mondo.
TENDENZA IN RALLENTAMENTO. I dati macroeconomici non confermano che questo sta accadendo
nella misura annunciata, dice Eichengreen. In realtà la Total Factor Productivity (Tfp) o produttività
totale dei fattori, che misura la quota di crescita del Pil attribuibile alle innovazioni tecnologiche e alle
riforme strutturali dell’economia, è andata rallentando, e non accelerando a partire dagli Anni 80. «Questo
non significa negare che la struttura occupazionale sta cambiando. Ma significa mettere in discussione
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