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Infolampo: Povertà, pensioni

vignpovertaUn patto contro la povertà. Quando il dialogo funziona
Buone notizie. Nei giorni scorsi in Emilia Romagna è stato firmato il protocollo di attuazione del RES, il
Reddito di solidarietà.
Un traguardo importante che consente di ridurre le disuguaglianze fortemente aumentate in questi anni di
crisi. La possibilità di cadere in condizioni di povertà si è estesa a larghissime fasce della popolazione. In
Emilia Romagna ci sono oltre 65 mila famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta, 250 mila
persone circa. Gli anziani sono il 22% della popolazione.
Dunque è evidente che quelli poveri rappresentino una
quota consistente che va tutelata e protetta.
I limiti di reddito per accedere al Reddito di solidarietà
sono molto bassi. Tutti gli anziani con la pensione minima
potranno accedere a questa misura. Un aiuto concreto che
favorirà il miglioramento delle condizioni di vita di molti.
“In Emilia Romagna la fascia di anziani con la pensione
minima è molto consistente. Per questo siamo soddisfatti
dei risultati raggiunti” spiega il segretario regionale dello
Spi Cgil dell’Emilia Romagna Bruno Pizzica.
Il protocollo rappresenta dunque un importante tassello in
più nella lotta contro la crisi e costituisce un risultato del
lavoro concreto del sindacato sul territorio. L’accordo
infatti è il frutto del lavoro congiunto dei sindacati, delle
istituzioni e delle associazioni del Terzo Settore. Ognuno
dei soggetti coinvolti ha assunto impegni precisi. Ognuno
ha fatto la propria parte per tradurre i bisogni concreti dei
cittadini in risposte concrete ed efficaci. “Il protocollo è il frutto di una modalità di lavoro consolidata che
dà risultati. Quella basata sul dialogo di tutti i soggetti, da quelli istituzionali a quelli sindacali, dal terzo
settore all’agro-alimentare”, spiega Pizzica. “Siamo di fronte a una progettazione condivisa che determina
risultati positivi. Ognuno ha fatto la sua parte nella fase di elaborazione del protocollo e ognuno
continuerà a fare la propria parte anche nella fase successiva”.
Per quanto riguarda il mondo degli anziani sarà proprio compito delle sedi territoriali dello Spi
comunicare a tutti i pensionati l’esistenza di questo nuovo strumento, informare e aiutare tutti
concretamente a farne richiesta. “Vogliamo aiutare tutti a utilizzare pienamente questa nuova misura di
lotta contro la povertà. Sensibilizzeremo e informeremo i nostri iscritti, e non, della nuova possibilità che
si apre, aiutando gli anziani che ne hanno bisogno a presentare l’apposita domanda”, conclude il
segretario regionale.
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“La forza delle donne di fronte
al terremoto”, il 28 settembre
un convegno a Macerata

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Da vecchi saremo tutti poveri? La necessità di una vera
“pensione di garanzia”
Da quando, nel lontano 1995, il sistema previdenziale italiano ha iniziato ad abbandonare, con estrema
gradualità, lo schema retributivo – in cui la pensione era legata al numero di anni di attività e alle
retribuzioni di fine carriera – per sostituirlo con quello contributivo – in cui la prestazione dipende dai
contributi versati nell’intera carriera – i più giovani hanno iniziato a temere per il proprio futuro da
pensionati e non è infrequente sentirli dire: “saremo costretti a passare una vecchiaia in povertà, perché
le nostre pensioni saranno da fame”.
di Michele Raitano
In questo “Contrappunto” intendo ragionare, da una parte, su quanto sia effettivamente fondato questo
timore e, dall’altra, su come si potrebbe intervenire per migliorare le prospettive dei futuri pensionati;
quest’ultimo tema, peraltro, è recentemente entrato nel dibattito seguito all’avvio della cosiddetta “Fase
2” del piano d’azione del Governo in ambito previdenziale che era stato delineato nell’accordo siglato fra
Governo e sindacati a Settembre 2016.
Nel sistema contributivo l’importo delle prestazioni dipende dal montante accumulato dagli individui
“virtualmente” (non essendo i contributi, nel sistema a ripartizione, effettivamente accumulati) – cioè dai
contributi versati e dal rendimento conseguito su questi (legato al tasso di crescita del PIL) – e dai
cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi ultimi, in base alla vita media all’età di pensionamento,
convertono il montante in una rendita e fanno sì che chi si ritira più tardi riceva una prestazione più
elevata, poiché ne beneficerà, in media, per un minor numero di anni.
A parità di crescita del PIL e invecchiamento demografico, la prestazione di ogni individuo è il riflesso
della sua esperienza lavorativa; l’importo della pensione dipende, infatti, dall’interazione, nel corso
dell’intera carriera, di aliquote di contribuzione (ed è sfavorito chi, come in passato i co.co.co. o
attualmente i “voucheristi”, versa un’aliquota minore), periodi lavorati (o con contribuzione figurativa) e
retribuzioni (su cui incidono, negativamente, anche i lavori part-time). Vite lavorative meno fortunate –
cioè con frequenti periodi di non lavoro, bassi salari e aliquote ridotte – si riflettono, dunque, in una
pensione di importo proporzionalmente minore. In aggiunta, al di là dell’assegno sociale, che viene
concesso a tutti gli anziani privi di altri mezzi (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non
esiste l’integrazione al minimo, che, nel precedente sistema, costituiva un pavimento per le prestazioni
pensionistiche.
Il cospicuo aumento dell’età pensionabile – le prime coorti che andranno in pensione interamente col
contributivo non dovrebbero uscire (intorno al 2040) prima dei 69 anni d’età o con meno di 44-45 anni di
contribuzione – dovrebbe, tuttavia, consentire di accrescere l’importo della pensione per effetto dei più
elevati coefficienti di trasformazione da applicare e dell’eventuale maggiore durata della vita lavorativa,
che comporterebbe una più elevata accumulazione contributiva.
A questo proposito, alcune simulazioni rilevano che con carriere “piene” e lunghe (circa 40 anni di
contributi) il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe del tutto simile (attorno all’80% netto),
se non superiore, a quello dello schema retributivo, dove però prestazioni di simile importo erano pagate a
età anagrafiche ben inferiori (cfr. Conti e Raitano, “L’adeguatezza delle future pensioni contributive”, in
Rapporto sullo Stato Sociale 2015, a cura di F.R. Pizzuti). Chi dovesse trascorrere una vita lavorativa
stabile e remunerata decentemente riceverebbe, dunque, una prestazione del tutto adeguata al tenore di
vita precedente al pensionamento. Va dunque smentito il luogo comune del “tutti avremo pensioni da
fame”.
Quindi nessun problema? Tutt’altro. Il problema esiste, e grave, per chi dovesse avere una carriera
svantaggiata, rischiando di ritrovarsi con un montante esiguo anche dopo decenni di attività. Non
sappiamo, ovviamente, quanti saranno in queste condizioni ma, in base alle prime evidenze empiriche
relative alle carriere dei attuali 40-45enni una quota estremamente ampia di chi ha iniziato a lavorare
dopo il 1995 ha effettuato versamenti limitati nella prima fase della carriera.
In un lavoro di prossima pubblicazione, facendo uso di un campione di lavoratori italiani registrati negli
archivi dell’INPS, ho calcolato quanti, fra coloro che hanno iniziato a lavorare fra il 1996 e il 2001
(quindi, ben prima della crisi), hanno accumulato nei primi 10 anni di carriera meno del 60% di quanto
avrebbe accumulato, nello stesso periodo, un individuo che avesse lavorato continuativamente da

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