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Infolampo: poveri, austerity

poverta002La guerra dello Stato contro i poveri
I fatti di piazza Indipendenza a Roma ci dicono che il tema dell’accoglienza è ormai il campo in cui si
gioca la partita del consenso, in un Paese dilaniato dalle disuguaglianze, dove prospera chi indica ai
penultimi di prendersela con gli ultimi
di Giuseppe Massafra
Una carezza potrà salvarci dalla condanna della Storia solo se tutti noi saremmo capaci di riconoscerci in
essa. Un atto di compassione, di umanità, che racconta
meglio di mille parole la necessità di cambiamento,
l’urgenza di alcuni temi come: il diritto alla casa e la
lotta contro le disuguaglianze. Ridurre i fatti di Piazza
Indipendenza ad una questione di migranti e rifugiati
vuol dire eliminare arbitrariamente un fattore
fondamentale: la guerra dello Stato contro i poveri. La
povertà resa oscena, letteralmente, tenuta fuori dai
racconti ufficiali, che nella semplificazione che fa bene
al potere, riducono tutto ad una questione di italiani e
stranieri. Abbiamo il dovere di disinnescare la
polveriera su cui siamo seduti.
Due immagini superano ogni narrazione sui fatti di via
Curtatone. Il poliziotto che accarezza la donna che si
dispera perché costretta ad abbandonare quella che
ormai considerava il suo rifugio, e il gettito impetuoso degli idranti si scaglia violentemente su un
rifugiato che si aiuta con le stampelle per camminare. Sono due immagini che rappresentano in maniera
chiara le profonde contraddizioni che attraversano il nostro Paese in tema di migranti e di lotta alla
povertà. Da un lato l’umanità e quella naturale propensione ad occuparsi dell’altro. Qualcosa sempre più
riconducibile ad un istinto, ad una pulsione interiore, quasi incontrollabile che alberga nel profondo
dell’animo umano. Dall’altro il cinismo e la freddezza con i quali si portano avanti scelte che vengono
fatte passare per razionali e sensate, ma che non fanno altro che alimentare atteggiamenti omofobi e
razzisti.
Da un lato la natura umana, dall’altro la politica.
Il tema dell’accoglienza è ormai il campo in cui si gioca la partita del consenso, in un Paese dilaniato
dalle disuguaglianze, dove prospera chi indica ai penultimi di prendersela con gli ultimi. Lo sgombero di
via Curtatone è la rappresentazione plastica di un sistema quasi fuori controllo, di una società che ha
bisogno di riflettere profondamente su sé stessa. Può una decisione di un curatore fallimentare intervenire
così profondamente sulla biografia, sul corpo e il sangue di esseri umani? Possono gli essere umani essere
deportati per delibera? Restare umani deve essere la prerogativa di qualsiasi Istituzione, la burocrazia non
può essere valore assoluto e soprattutto è tempo che ai migranti sia data rappresentanza politica, la
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Terremoto: solidarietà a popolazione.
Convocheremo Stati Generali

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Dell’austerity e di altri falsi miti
Alla luce del fallimento delle politiche attuate da quasi un decennio, occorrerebbe una radicale
correzione di rotta. Nella direzione dell’utilizzo dello spazio fiscale disponibile per maggiori investimenti
pubblici che facciano crescere, contestualmente, la domanda interna e la produttività del lavoro
di Guglielmo Forges Davanzati
Il combinato di politiche di austerità (ridenominate misure di “consolidamento fiscale”) e precarizzazione
del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni,
dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il
consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito
pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere
l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti,
mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà
del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più
competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di
defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti
implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
Si tratta di un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non pensare che dia i
suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali
poggiano queste politiche sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.
1) Le politiche di austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento, non una
riduzione, del rapporto debito pubblico/Pil, che è infatti costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al
133% del 2016). Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita,
riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il numeratore. Questo effetto è tanto
maggiore quanto maggiore è il valore del moltiplicatore fiscale, stimato, dal Fondo Monetario
Internazionale, a 1.5. In tal senso, il consolidamento fiscale è prima ancora che un errore di politica
economica un errore tecnico, basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della
spesa pubblica
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare
aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la
precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e,
dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la
precarizzazione del lavoro, in quanto consente alla imprese di recuperare competitività attraverso misure
di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del
lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione.
3) La detassazione degli utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento che
questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le quali, a loro volta, sono
fortemente condizionate dalle aspettative di crescita (e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere).
Manovre fiscali restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la gran parte
delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e, dunque, generare riduzione degli
investimenti. Peraltro, la detassazione degli utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre
generare avanzi primari – implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi di
quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per questa ragione, detassare le
imprese significa ridurne i mercati di sbocco, almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti
e aumento delle insolvenze. Il problema si pone soprattutto per la riproposizione di queste misure nel
tentativo di attrarre investimenti nel Mezzogiorno, attraverso la recente istituzione delle “zone
economiche speciali”. Come rilevato da Gianfranco Viesti, il tentativo di stimolare gli investimenti nel
Mezzogiorno attraverso misure di incentivazione non tiene conto della modesta dinamica della domanda
interna (le imprese investono se si attendono di poter vendere e ottenere ragionevoli margini di profitto;
cosa che non accade se la domanda è bassa e in riduzione), della presenza di criminalità, del deficit di
infrastrutture.
4) La moderazione salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che il saldo
delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte le importazioni, a seguito della
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