Infolampo: Nababbi
Vite da nababbi per i pensionati italiani all’estero?
Negli ultimi anni ci si imbatte sempre piu ́spesso in interviste televisive e radiofoniche, articoli sui
giornali, video sui social attraverso i quali si propaganda, di fatto, una moderna corsa all ́oro con
immagini esotiche di pensionati goderecci, stravaccati su spiagge da sogno, finalmente felici in
localita ́dove la vita non costa niente e la si puo ́sostenere con i soldi che il fisco in Italia ti avrebbe
sottratto.
di Franco Di Giangirolamo
Sono fiorite decine di agenzie specializzate nella organizzazione di queste fughe senili, centinaia di siti
web dove ci si aiuta, organizzazioni piu ́o meno solidali di
„italiani in…..“. L ́Eldorado pare sia stato trovato!!!! Altro
che lotte sindacali!!!!
Premesso che ritengo assolutamente rispettabile la scelta dei
pensionati, di andare dove vogliono e quando vogliono, vorrei
ridimensionare il primo effetto di questo fenomeno tutt ́altro
che nuovo: l ́eccesso di illusioni.
Naturalmente mi rivolgo a coloro che non hanno compreso
bene l ́insegnamento di Collodi sul Paese dei Balocchi!
Partiamo dalle cifre. Il numero delle pensioni pagate
all ́estero non corrisponde al numero dei pensionati italiani
che hanno migrato all ́estero. La confusione e ́grave perche ́
le prime ammontano negli ultimi dieci anni a circa 500.000,
mentre i secondi ammontano a 36.578 nel periodo dal 2003 al
2014. Nello stesso periodo sono rientrati dall ́estero 24.857
emigrati, per cui la catastrofe fiscale che questi scellerati
migranti starebbero determinando, secondo alcuni patriottici
commentatori e ́una stupidaggine allo stato puro, se si pensa
che il totale dei pensionati italiani erano nel 2014 la bellezza di oltre 16 milioni.
E ́vero che sono aumentati i pensionati in fuga, ma si tratta di poche migliaia di persone.
Secondo: dove vanno? L ́ídea che si diffonde erroneamente e ́che tutti i pensionati emigrati partecipino
alla corsa all ́oro verso i paradisi naturali e fiscali e che non ci siano altre ragioni ben piu ́serie, per non
dire gravi, alla base di questa mobilita ́. I numeri dell ́INPS: verso l ́ Africa solo un terzo degli emigrati
totali va in Tunisia e Marocco, in Tailandia si reca l ́otto per cento dei pensionati emigrati in Asia, oltre
4.000 vanno negli USA e in Canada ́mentre in Mexico solo 128, anche se la vita costa meno e le spiagge
sono fantastiche. E in Europa? Nel 2014 su 3.578 pensionati emigrati in Europa, 1.839 sono andati in
Germania, 1.340 in Francia, 714 in Svizzera e solo 210 in Romania, 17 in Portogallo, 297 in Spagna (
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pensionati-italiani-allestero/
Previdenza, il 13 luglio l’attivo
nazionale quadri e delegati di
Cgil, Cisl e Uil
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Il bilancio è un bene pubblico
Quest’articolo scaturisce dalle riforme della decisione di bilancio introdotte nel 2016. Si tratta
d’innovazioni che completano un ciclo avviatosi alla fine degli anni settanta (legge 468 del 1978) e che
ha avuto uno snodo importante nella riforma costituzionale del 2012 (equilibrio di bilancio). La tesi è
che le nuove norme possano consentire il ritorno a un processo decisionale razionalizzato, essenziale per
valorizzare il bilancio come bene pubblico, e superare quella sorta di diritto provvisorio, instauratosi da
oltre un decennio, che rende opache le decisioni e impedisce la corretta programmazione delle scelte
pubbliche. Questi temi sono stati recentemente approfonditi da chi scrive nel libro, curato insieme a
Paolo De Ioanna, “Il bilancio è un bene pubblico”, edito da Castelvecchi (2017).
di Marcello Degni
Il bilancio è un bene pubblico essenzialmente per tre ragioni. Prima. E’ il punto di equilibrio di un
processo eminentemente politico, il cui fine ultimo, in una società complessa, è quello di comporre
interessi diversi e fisiologicamente confliggenti. Seconda. E’ un manufatto complesso, in cui si condensa
un’esigenza di stabilità. Le decisioni del passato producono azioni e interventi che hanno bisogno di
tempo per produrre effetti e non possono essere rimesse costantemente in discussione da un decisore
sempre in cerca di nuovi obiettivi da realizzare. In questa dimensione contano molto gli specialismi, la
consistenza delle basi informative, le tecniche di valutazione degli obiettivi. In altre parole è necessaria
l’attivazione di uno strumentario fine che renda possibile al policy maker il controllo della sua azione e le
correzioni necessarie per massimizzare efficienza ed equità. Terza. E’ sostanza. Come ha detto, da ultimo,
la Corte Costituzionale (sentenza 10 del 2016) “anche attraverso i semplici dati numerici contenuti nelle
leggi di bilancio e nei relativi allegati possono essere prodotti effetti innovativi dell’ordinamento, … (che)
costituiscono scelte allocative di risorse” . Ciò significa che anche gli interventi sul bilancio dovuti a
ragioni “tecniche” o “contabili” incidono, di solito, su diritti e aspettative pubbliche.
Questi tre aspetti non sono nuovi. “Tutti i popoli che si rivendicarono a libertà posero a fondamento di
essa il diritto di votare le imposte per mezzo dei loro delegati”, scrivevano Mancini e Galeotti nel 1887
nel bel manuale “Norme e usi del Parlamento italiano”, in cui si narra degli accesi scontri tra la Camera
elettiva e il Senato regio ogni qualvolta quest’ultimo metteva il naso nelle decisioni di natura tributaria. E’
il noto principio “no taxation without representation”, alla base della nascita dei parlamenti, che spiega la
forte connessione tra decisione di finanza pubblica e democrazia rappresentativa. Non a caso Orlando, nel
1911, afferma che il “diritto di bilancio è un concetto giuridico entrato nel diritto pubblico con
l’affermarsi dello stato costituzionale moderno” .
La questione della stabilizzazione del bilancio è stata affrontata storicamente con nettezza nel Regno
Unito “per la distinzione della parte permanente e transitoria del bilancio”. Sulla seconda parte è più forte
il discernimento e il sindacato parlamentare, mentre sulla prima si misura l’azione del governo. Il primo,
ci dice Arcoleo nel 1880, “può bene segnare dei principii secondo i quali debba procedere il governo, in
materia di finanza, ma al di là di questo è impossibile che il legislatore intervenga utilmente nei dettagli
dell’amministrazione”. La separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa è quindi un
principio risalente, necessario per trovare un equilibrio tra esigenza di stabilità e innovazione.
La discussione tra forma e sostanza con riferimento al bilancio ha riempito scaffali. Intendere il bilancio
come una legge formale significa interpretarlo come mera proiezione contabile della legislazione
sostanziale. Basta leggere l’allegato al DEF sulla formazione delle previsioni tendenziali per apprezzare,
anche a prescindere dalla riforma costituzionale, l’elevato grado di convenzionalità nella quantificazione
di molte partite finanziarie definite in base alla cosiddetta “legislazione vigente”. Del resto, anche su
questo punto, se il Graziani riteneva, nel 1911, che i “i più insigni cultori di diritto pubblico ritengono che
il bilancio sia una legge soltanto per la sua forma, non pel suo contenuto materiale”, il Majorana, di
contro, sosteneva, nel 1886, che “il bilancio è una vera e propria legge e comprende la facoltà al governo
di agire”.
Per essere fino in fondo un bene pubblico, il bilancio deve essere il prodotto di una decisione trasparente,
che non si concentri solo sui saldi, ma anche sulle politiche pubbliche e i programmi (e che non sia
appesantita da micro decisioni); una scelta verificabile, in cui sia possibile definire la ripartizione delle
risorse disponibili, e flessibile nella gestione, per meglio approssimare gli obiettivi. Infine una decisione
comprensibile. Quest’ultimo è un elemento cruciale. Come sostiene Jurgen Habermas solo uno stato
democratico è in grado di fornire la garanzia istituzionale dell’osservanza generale delle norme; e il
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