Da Infolampo: previdenza – lavorare
Previdenza, al via la «fase 2»
Incontro a Roma tra il ministro del Lavoro Poletti e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Al centro i
decreti attuativi dell’Anticipo pensionistico, ma in agenda ci sono anche le questioni legate a giovani,
donne e lavoratori con carriere discontinue
Sulle pensioni siamo ormai alla stretta finale. Che dovrebbe realizzarsi oggi (giovedì 23 marzo), con il
nuovo incontro a Roma tra governo e sindacati.
L’appuntamento è alle ore 9 presso la sede del ministero del
Lavoro (in via Veneto 56), partecipano il titolare del
dicastero Giuliano Poletti e i segretari generali di Cgil, Cisl e
Uil. Al centro del colloquio i decreti attuativi dell’Anticipo
pensionistico (Ape), su cui però la Cgil, nel vertice “tecnico”
di lunedì 20 marzo scorso, ha espresso più di una perplessità.
Su molti punti le risposte sono state del tutto insufficienti”
ha detto il segretario confederale Roberto Ghiselli,
commentando, appunto, l’ultimo incontro. “Abbiamo
espresso perplessità – ha continuato – soprattutto sulle
procedure che s’intendono adottare: la fissazione di una data
rigida entro cui presentare le domande; il criterio dei sei anni
di lavoro continuativo nelle attività gravose, che rischia di
escludere interi settori come l’edilizia; l’impossibilità, per i
lavoratori disoccupati per scadenza del contratto a termine,
di rientrare fra i lavoratori precoci o nell’Ape sociale”.
La partenza dell’Ape sociale è fissata per il 1 maggio, il
governo prevede una prima ondata di circa 35 mila richieste. Le domande andranno presentate entro il 30
giugno per chi matura i requisiti nel 2017, mentre per il 2018 la data limite sarà in marzo. A chiedere
l’Anticipo potranno essere soggetti in condizioni di disagio (disoccupati che abbiano esaurito la
disoccupazione da almeno tre mesi, invalidi civili con almeno il 74 per cento di invalidità, dipendenti che
svolgono da almeno sei anni in via continuativa un lavoro gravoso), con almeno 63 anni di età e 30 di
anzianità contributiva.
Ma l’Anticipo pensionistico non è il solo argomento in agenda. La “fase 2” della previdenza, infatti, ha
all’ordine del giorno molte altre questioni rilevanti: il possibile taglio del cuneo fiscale e contributivo,
l’attivazione di una pensione minima di garanzia per i lavoratori con carriere discontinue, il tema della
flessibilità in uscita (su cui i sindacati spingono per tenere conto delle diverse situazioni dei lavoratori),
gli aspetti previdenziali riguardanti le donne e i giovani, la rivalutazione delle pensioni in essere, la
separazione della previdenza dall’assistenza.
Leggi tutto: http://www.rassegna.it/articoli/previdenza-al-via-la-fase-2
Pensa a cosa mangi.
Alimentazione e salute delle
persone anziane
Leggi su www.spi.cgil.it
www.eguaglianzaeliberta.it
Lavorare meno serve allo sviluppo
I così detti beni secondari hanno un contenuto tecnologico più alto e un valore economico maggiore, ma
richiedono che chi li compra abbia il tempo di imparare ad usarli. La loro domanda dipende dunque
anche dall’orario di lavoro, che storicamente tende a ridursi, ma in Italia meno che in altri paesi – come
la Germania – che infatti hanno risultati migliori di crescita e produttività
di Roberto Romano
Sebbene la discussione sugli orari di lavoro (medio annuo per lavoratore) sia caduta nel dimenticatoio del
dibattitto politico ed economico, l’oggetto è di particolare interesse. Non solo perché storicamente si è
sempre lavorato troppo, ma perché declina come la società nel suo insieme immagina se stessa. Il lavoro e
il capitale sono fondativi del capitalismo e dell’accumulazione; Smith e Marx hanno scritto pagine
importantissime sul tema. Solo per ricordare i passaggi più importanti, ricordo che Marx sosteneva che
“non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche
economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro
umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro” (la citazione di
Marx è tratta da Rosenberg 2001, p. 64.).
Quindi gli orari di lavoro non sono solo il tempo dedicato dagli uomini e dalle donne all’impresa
produttiva per realizzare beni e servizi; rappresentano anche lo sviluppo economico correttamente inteso.
Tanto più il salario di sussistenza poteva (può) essere estratto da un uso più contenuto del tempo di
lavoro, tanto più la società evolveva e cambiava la sua struttura produttiva e la sua domanda (consumo).
Senza questa sequenza sarebbe inconcepibile lo sviluppo capitalistico e la dinamica evolutiva del salario
di sussistenza. Infatti, al variare del reddito non si consuma di più, ma si consumano beni diversi.
Sebbene il cambiamento quali-quantitativo dei consumi sia imputabile al cambiamento del reddito da
lavoro, con il passare degli anni lo sviluppo economico dal lato dell’offerta e della domanda necessitava
di qualcosa di più del solo (puro) incremento del reddito per sostenere il cambiamento della stessa
domanda e produzione. I così detti beni secondari non solo hanno un contenuto tecnologico più alto e,
intrinsecamente, un valore economico maggiore rispetto ai beni primari, ma configurano un
coinvolgimento maggiore del consumatore. In altri termini, senza un adeguato tempo (attenzione) sarebbe
inconcepibile l’acquisto di alcuni beni e servizi. La lotta per la riduzione degli orari di lavoro della
sinistra e del sindacato, nel loro insieme, sono un passaggio fondamentale per alimentare e sostenere il
processo produttivo. Da questo punto di vista la sinistra e il sindacato sono state istituzioni macro-
economiche molto più lungimiranti dei capitalisti. Se il tempo è fondamentale per una impresa, non di
meno è quello dei consumatori che devono pur utilizzare certi beni e servizi a maggiore contenuto
tecnologico e, quindi, a maggior contenuto di tempo per l’apprendimento.
Sostanzialmente il tempo dedicato al lavoro, in questo caso quello lavorativo, lasciando sullo sfondo
quello ri-produttivo che interessa altre categorie, è un indicatore di ben-essere della società e del sistema
economico in generale. In effetti, le società (Stati) capitalistiche che hanno contratto gli orari di lavoro più
velocemente di altri, sono anche quelle che hanno registrato le migliori performance in termini di crescita
di reddito (PIL) e di produttività. Il tempo liberato dal lavoro produttivo ha permesso di sostenere la
crescita e il consumo di beni e servizi che altrimenti non avrebbero trovato una adeguata domanda per
sostenerli.
La crisi intervenuta nel 2007 consegna alla società e alla sua classe dirigente una sfida inedita: ricostruire
le nuove istituzioni del capitale e quindi della società nel suo insieme. Gli orari di lavoro sono un pezzo
delle nuove istituzioni (informali e formali) del capitale. Si tratta di dare seguito a delle indicazioni e delle
tendenze strutturate, ma che devono ancora diventare paradigma.
Quali sono le indicazioni e tendenze che emergono dalla comparazione di alcuni paesi circa gli orari di
lavoro annuo per addetto? In qualche modo confermano l’idea di una società che cambia,
indipendentemente dalla pubblicistica dominante.
Innanzitutto la storica riduzione dell’orario di lavoro non si è arrestata. Se in Germania si lavoravano
1.528 ore annue per addetto nel 1995, nel 2015 si lavorava in media non più di 1.371 ore. Lo stesso trend
è osservabile per molti altri paesi: in Francia si passa da 1.605 a 1.482; in Spagna da 1.755 a 1.691; in
Usa si passa da 1.844 a 1.790. Anche in Italia gli orari di lavoro medio annuo per lavoratore
diminuiscono: si passa dalle 1.856 ore annue medie per lavoratore del 1995 a 1.725 del 2015. Quindi la
corsa alla riduzione degli orari di lavoro non si è arrestata. La riflessione (domanda) che dobbiamo farci è
legata alla velocità di implementazione: è stata sufficiente per compensare la produttività e per sostenere
Leggi tutto: http://www.eguaglianzaeliberta.it/web/content/lavorare-meno-serve-allo-sviluppo