Da Infolampo: Lavoro – lavoro
Lavoro: dall’Unità una lezione sbagliata
L’attacco di Staino alla Cgil e al suo segretario obbliga ad una riflessione sul rapporto tra dinamica
sociale e rappresentanza politica. Un distacco che diventa questione di responsabilità di fronte ai gravi
problemi del paese
di Altero Frigerio
Lo sciocchezzaio dell’editoriale post-epifania di Staino è davvero sorprendente nella sua inattendibilità,
ma non per questo meno allarmante e foriero di ulteriori effetti indesiderati ed indesiderabili. Certo, deve
far riflettere le persone di buona volontà il fatto che comici e
personaggi della satira invadano il campo della politica e del
confronto delle idee, con risultati non propriamente esaltanti.
Ma dopo la poco edificante campagna elettorale sul
referendum costituzionale, sembra che tutto sia possibile e
tutto sia ammesso.
Dalle colonne de l’Unità, Staino pretende di dare lezioni a
Susanna Camusso su come si dirige la Cgil, consigliandole
di abbandonare il campo dell’opposizione ai governi e allo
loro politiche. Nella sostanza si imputa alla leader di Corso
d’Italia di aver rinnegato la vocazione “riformista”
allontanandosi dagli interessi generali dei lavoratori e del
paese coltivati invece da suoi illustri predecessori. Assunto
apodittico, poco di merito e con poca sostanza, tanto
infondato quanto pretestuoso. Potremmo rispondere al
vignettista promosso direttore del quotidiano fondato da
Antonio Gramsci che come lui sente nostalgia per la Cgil di
Lama e Trentin, noi nutriamo analogo sentimento per il partito che ha avuto come segretari Togliatti
Longo e Berlinguer. E non tanto per avervi militato, quanto per la sua natura, per quel radicamento
popolare e di sinistra che nel corso degli anni si sono purtroppo andati perdendo e che gli epigoni
fiorentini e toscani in genere si stanno impegnando in prima persona a cancellare una volta per sempre.
Certo brucia anche a Staino il 60 a 40 con cui gli italiani hanno seppellito l’intento di stravolgere la
Costituzione firmata da Terracini e alla quale hanno dato il loro contributo e servito con dignità
istituzionale presidenti della Camera come Nilde Iotti e Pietro Ingrao e personalità come Natta e
Amendola. Brucia la determinazione, l’autonomia, la responsabilità – personale di Susanna Camusso e
collettiva di tutta la Cgil – nel respingere quella riforma e impegnarsi perché vi fosse una attenta e
consapevole partecipazione a quel referendum.
Voucher e licenziamenti illegittimi vanno ingoiati in nome del cambiamento senza aggettivi, del primato
del mercato e nell’interesse delle aziende. Osare dire che sono l’anticamera della moderna schiavitù e
vanno fermati prima che i guasti producano un ancor più grave scollamento tra mondo del lavoro e
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2017/01/09/7945/lavoro-dallunita-una-lezione-sbagliata
Le 5 bufale sul caso voucher in
Cgil smontate una per una
Leggi su www.spi.cgil.it
www.sbilanciamoci.it
Lavoro e felicità ai tempi del Jobs Act
Il lavoro, specie in tempi di crisi, è il principale asse intorno a cui gravitano aspirazioni e desideri dei
soggetti. Quale nesso esiste oggi tra sfera occupazionale e felicità?
di Leonard Mazzone
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. A rileggerlo oggi, il primo articolo della
Costituzione italiana fa una certa impressione. Accusati da più parti di anacronismo, la costituzione e il
diritto del lavoro italiani sono recentemente diventati i fronti di due battaglie politiche destinate a lanciare
un messaggio chiaro al Parlamento. Su uno di questi fronti l’Italia si è già espressa lo scorso 4 dicembre,
quando è stata bocciata la riforma costituzionale voluta dal governo Renzi. L’altro fronte su cui potrebbe
essere chiamata a esprimersi riguarda proprio il lavoro, qualora l’11 gennaio 2017 la Corte Costituzionale
dovesse approvare i quesiti referendari formulati dalla CGIL per l’abolizione dei voucher, la
reintroduzione della responsabilità sociale delle aziende appaltatrici e di quelle appaltanti in caso di
violazioni ai danni dei lavoratori e, infine, la reintroduzione dell’articolo 18 e quindi del dovere da parte
del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa anziché di corrispondergli
un’indennità monetaria come previsto dal Jobs Act (per le aziende con più di 5 dipendenti).
Il no al referendum sulla riforma costituzionale ha già prodotto effetti politici di una certa portata, come
dimostra la caduta del governo Renzi; l’esecutivo che gli è subentrato ha già legato il suo destino all’esito
del secondo appuntamento referendario, come dimostrano le parole di uno dei ministri usciti indenni dalla
transizione da un governo a un altro. Poletti ha espresso la disponibilità del governo a comprimere i tempi
della stesura e dell’approvazione di una nuova legge elettorale per andare a votare il prima possibile, pur
di posticipare la data di un referendum che rischierebbe di abbattere un altro dei cavalli di battaglia del
governo Renzi (come previsto dalla legge per evitare la sovrapposizione di due campagne elettorali).
In attesa di assistere all’evoluzione di questo scenario, una certezza può darsi ormai per acquisita: chi
aveva rimproverato la politica di non occuparsi più del “paese reale” si stava sbagliando, e non di poco.
Lungi dall’essere disertato o trascurato, il mondo del lavoro e gli annessi diritti e doveri sono al centro
delle preoccupazioni della politica italiana. Il problema non è il disinteresse o l’immobilismo, ma – al
netto degli innegabili benefici di chi si è visto trasformare un contratto a termine in uno a tempo
indeterminato, acquisendo maggiori tutele1 – la trasformazione in senso regressivo del mondo del lavoro
e degli annessi diritti e doveri, come dimostra l’appropriazione indebita di un lemma come quello della
“rivoluzione permanente” da parte di forze politiche sedicenti riformiste per giustificare processi quali la
deresponsabilizzazione delle aziende nei confronti dei lavoratori, la flessibilizzazione del mercato del
lavoro e la precarizzazione esistenziale di chi non può fare a meno di lavorare per vivere.
Descrivere il mondo del lavoro e, per di più, il suo eventuale nesso con la felicità può quindi apparire
un’impresa impossibile, soprattutto in tempi di crisi. La difficoltà non è dovuta soltanto al tentativo di far
interagire un fenomeno sociale statisticamente misurabile con un sentimento camaleontico e insondabile
come la felicità. L’impresa è resa ancora più ardua dall’enigmaticità costitutiva di un fenomeno orfano
dello storico compromesso fra capitale e lavoro siglato nei Welfare State democratici tra la fine della
seconda guerra mondiale e la fine degli anni Settanta. A conferma della nebulosità che pervade oggi il
mondo del lavoro basti citare le guerre dei numeri combattute in Italia ogniqualvolta la pubblicazione di
statistiche rischi di confutare le profezie di ottimisti e pessimisti di professione. In un’epoca che sa
ricavare le uniche certezze che la riguardano dall’avvenuto superamento di quelle che l’anno preceduta –
da qui una serie infinita di neologismi mobilitati per dare un nome al presente e addomesticare l’attuale
senso di disorientamento epocale, dalla postdemocrazia al postfordismo, passando attraverso il
postindustriale – il lavoro resta il principale asse di rotazione attorno a cui gravitano i desideri e le
aspirazioni dei soggetti.
L’infelicità di chi cerca e non trova lavoro
Una conferma indiretta della relazione continuativa tra felicità e lavoro proviene anzitutto dall’infelicità
associata alla disoccupazione: una condizione, questa, che investe più di un italiano su dieci e più di un
giovane su tre2. Nel 2015 in Italia il rischio di esclusione sociale – è questa l’espressione adottata
nell’ambito della Strategia Europa 2020 – è rimasto pressoché invariato (28,7%) rispetto ai dati raccolti
nell’anno precedente (28,3). Quasi un italiano su tre si trova a rischio di povertà, in una condizione di
grave deprivazione materiale o, ancora, vive una bassa intensità di lavoro3. A determinare un quadro
tanto preoccupante ha contribuito l’aumento delle disuguaglianze economico-sociali: il 20% più ricco
delle famiglie percepisce il 37,3% del reddito equivalente totale, mentre il 20% più povero solo il 7,7%4.
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