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Da Infolampo: Voucher e Jobs Act

jobsact001I voucher e il question time

Di fronte all’esplosione dei buoni lavoro (ovvero più lavoro nero, più lavoro povero, più abusi…), il

governo riconosce gli eccessi ma promette solo qualche controllo tecnico in più. Per migliorarli,

ovviamente. Mica per rottamarli

di Giorgio Frasca Polara

Lo scandalo dei voucher, una forma di “contratto di lavoro” i cui codici somigliano al gratta-e-vinci che si

acquistano in tabaccheria? L’aumento vertiginoso del loro utilizzo rivelatore di una forma di sfruttamento

inedita sino a pochi anni fa? Il voucher che spunta improvvisamente nel caso di un incidente sul lavoro o

della scoperta del lavoro in nero? “Noi siamo contrari all’abolizione del voucher, ma siamo

contestualmente disponibili a discutere di eventuali forme

migliorative ove vi fosse la possibilità e la necessità di farlo”.

Sono le testuali, equivocamente generiche parole adoperate dal

presidente del Consiglio, Matteo Renzi, di fronte alla Camera

nel botta-e-risposta settimanale provocato da una

interrogazione con cui il deputato Arturo Scotto riproponeva la

questione della diffusione massiccia del buono che non ne

maschera ma anzi ne conferma le caratteristiche assai spesso

abusive.

Renzi nega che la sua (e quella del governo) sia “una posizione

di chiusura ideologica”: “Siamo pronti al dialogo: alcuni dati

qui riferiti sono reali, altri, a nostro giudizio, sono discutibili”.

Quali sono “reali”, e quali “discutibili”? Renzi non lo ha detto,

ma ha minimizzato il fenomeno: “Il numero dei percettori di

voucher oscilla tra l’1,9 e il 2,7% della forza lavoro e del

bacino osservato. E sono in larga parte nel turismo e nel

commercio”. E nelle campagne? E nelle fabbriche? Non citate.

Ma “se ci sono degli eccessi siamo pronti a discutere”. Ed ha subito parlato d’altro: “Non c’è governo che

abbia combattuto il precariato più del nostro”, per esempio attraverso la legge sulla Buona Scuola “che ha

portato ad un oggettivo cambio di passo nella situazione del precariato”. Per non parlare del Jobs Act che,

“dal primo giorno in cui noi siamo qua, ha prodotto 398mila posti di lavoro in più di cui 354mila a tempo

indeterminato”. Nessun accenno alla drastica riduzione, quest’anno, del contributo fiscale dello Stato alle

assunzioni non precarie.

Ma il riferimento entusiasta al Jobs Act non era affatto casuale. Perché il presidente del Consiglio è

tornato a dire che “siamo pronti a discutere anche di forme di diversa organizzazione dei voucher, ma non

certo il loro superamento”, e lo ha ribadito (sempre senza spiegare se e come) per dimostrare che, “come

noi siamo intellettualmente onesti e pronti a discutere di voucher”, così altrettanta onestà ci vorrebbe

[evidentemente da parte delle opposizioni e dei sindacati, ndr] per “il riconoscimento che il Jobs Act ha

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19 maggio 2016 – Manifestazione

nazionale unitaria dei pensionati

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Jobs Act: costi-benefici decisamente sproporzionati

A fronte di 6,1 miliardi di euro spesi nel solo 2015 si registrano poco più di 100mila occupati aggiuntivi.

I dati contenuti nel nuovo report della Cgil nazionale: “Un risultato insoddisfacente, che dimostra tutta

la sua spaventosa inefficienza”

“Un risultato, quello del Jobs Act, decisamente insoddisfacente, che dimostra la sua spaventosa

inefficienza se consideriamo la quantità di risorse spese per la creazione di nuova occupazione. A fronte

di 6,1 miliardi di euro spesi nel solo 2015 si registrano poco più di 100 mila occupati aggiuntivi. Un

rapporto costi, benefici decisamente sproporzionato”. E’ quanto calcolato dagli uffici fisco e finanza

pubblica e mercato del lavoro della Cgil Nazionale.

Il report analizza in termini di politica economica gli effetti del Jobs Act sull’occupazione a partire dagli

esiti che i due provvedimenti fiscali, decontribuzione e deduzione Irap, entrambi previsti nella legge di

Stabilità 2014, hanno avuto sulla riduzione della disoccupazione.

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Nel dettaglio, secondo quanto elaborato dal sindacato di corso d’Italia, il Governo ha speso ben 6,1

miliardi di euro nel 2015 per generare un incremento di circa 100 mila posti di lavoro su 800 mila posti

persi dall’inizio della crisi, di questi il 60% a tempo determinato. Cifre che indicano “una migliore

tendenza, anche se con numeri insoddisfacenti”.

Gli oltre 6 miliardi di euro, usciti dalle casse dello Stato nel 2015 per stimolare l’occupazione, sono la

somma, si legge nel report, del costo della decontribuzione, pari a 3,4 miliardi di euro lordi (i contratti che

hanno beneficiato dell’esonero sono stati circa 1,5 milioni), più 2,7 miliardi derivanti dalle deduzioni

sull’Irap. Inoltre, gli uffici fisco e finanza pubblica e mercato del lavoro della Cgil, avvertono che nel

2016 e nel 2017 i costi saranno rispettivamente di 8,3 e di 7,8 miliardi.

Per la Cgil “non si possono affidare al mercato circa otto miliardi di euro all’anno nella convinzione che le

imprese, attraverso l’abbattimento dei costi, siano capaci di aumentare il numero degli occupati. Se

volessimo utilizzare le stesse risorse dei due provvedimenti citati in investimenti pubblici e per creare

direttamente occupazione, specie giovanile e femminile, si potrebbero generare molti più posti di lavoro”.

La Cgil, infatti, ha calcolato nel suo Piano del Lavoro che stanziando dieci miliardi all’anno per tre anni,

attraverso investimenti e assunzione diretta in settori non esposti alla concorrenza, si verrebbero a creare

circa 740.000 posti di lavoro, tra pubblici e privati.

“L’unica modalità concepita dal Governo per uscire dalla crisi sembra essere quella di abbassare salari,

occupazione e diritti del lavoro, quando invece per creare valore aggiunto – conclude la Cgil – occorre

aumentare la quantità e la qualità del lavoro come della produzione”.

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