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Scomparsi i vecchi mestieri artifgiani. Le vie vuote delle nostre città

artigianatoBasta guardare le vie delle città italiane per capire come la crisi del settore artigianale abbia modificato anche il panorama urbano. Al posto di molte attività come calzolai e fabbri infatti si installano esercizi che vendono cibo da consumare in strada, parrucchieri ed estetiste. Un effetto visivo che altro non è che la conseguenza della crisi che continua a investire il lavoro dei piccolissimi imprenditori. Nell’ultimo anno sono state circa 22 mila le microimprese che hanno chiuso i battenti, mentre dall’inizio della crisi, nel 2009, il numero complessivo è crollato di 116 mila attività. Al 31 dicembre 2015 il numero complessivo delle aziende artigiane presenti in Italia è sceso sotto quota 1.350.000. L’analisi dello stato comatoso in cui versa il settore nel nostro Paese è stata fatta dalla Cgia di Mestre in una sua ricerca. Secondo l’associazione ci sono alcuni mestieri che rischiano addirittura l’estinzione come «barbieri, calzolai, fabbri, fotografi, ottici o corniciai». Una situazione che ha non solo il risvolto economico ma anche quello sociale per la relativa perdita di saperi e conoscenze difficili da recuperare e un peggioramento del volto urbano di paesi e città, maggiore insicurezza e predisposizione al degrado. In valore assoluto, rileva la Cgia, l’edilizia (- 65.455 imprese) e i trasporti (-16.699) sono state le categorie artigiane che hanno risentito maggiormente degli effetti negativi della crisi. In sofferenza anche le attività manifatturiere, in particolar modo le imprese metalmeccaniche (-12.556 per i prodotti in metallo e -4.125 per i macchinari) e gli artigiani del legno (-8.076 che diventano -11.692 considerando anche i produttori di mobili). Maggiore è invece il dinamismo in altri settori a conduzione artigianale. Crescono infatti i parrucchiere e le estetiste (+2.180), le gelaterie-rosticcerie-ambulanti del cibo da strada (+ 3.290) e le imprese di pulizia e di giardinaggio (+ 11.370). Tra le ragioni della chiusura di molte di queste attività ci sono la «caduta dei consumi delle famiglie e la loro lenta ripresa, l’aumento della pressione fiscale e l’esplosione del costo degli affitti che hanno spinto fuori mercato molte attività, senza contare che l’avvento delle nuove tecnologie e delle produzioni in serie hanno relegato in posizioni di marginalità molte professioni caratterizzate da un’elevata capacità manuale». «Ma oltre al danno economico causato da queste cessazioni, c’è anche -osserva il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia- un aspetto sociale molto preoccupante da tenere in considerazione. Quando chiude definitivamente la saracinesca una bottega artigiana, la qualità della vita di quel quartiere peggiora notevolmente. C’è meno sicurezza, più degrado e il rischio di un concreto impoverimento del tessuto sociale». – «Ricordo – segnala il segretario della Cgia Renato Mason – che nell’ultimo comma dell’articolo 45 della nostra Costituzione si è stabilito che la legge deve provvedere alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato. In questi ultimi decenni, invece, questo principio spesso è stato disatteso, in particolar modo dalle norme in materia fiscale che hanno aumentato in maniera sconsiderata il carico fiscale e contributivo sugli artigiani».

Filippo Caleri