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Da Infolampo: L’economia delle diseguaglianze

infolampo_banRecuperare i ritardi, ridurre le diseguaglianze

L’esperienza avviata negli ultimi tempi dimostra che è possibile rinnovare l’attività e finalizzarla agli obiettivi del Piano del lavoro Cgil. Diffusi quasi ovunque accordi regionali e sperimentazioni di inclusione realizzati dai coordinamenti giovani

di Gaetano Sateriale

Anche negli anni di crisi l’esperienza della contrattazione sociale territoriale ha continuato a produrre tavoli di confronto, specie nelle regioni del Centro-Nord. Ogni anno sono circa un migliaio le intese (o i verbali di incontro) che le organizzazioni sindacali (in maggioranza quelle dei pensionati) hanno unitariamente firmato con i governi regionali e territoriali, in particolare con i Comuni. Si tratta di un’attività molto variegata per forme e contenuti, spesso di taglio difensivo (su ammortizzatori, fisco e assistenza agli anziani), che ha però avuto un effetto attenuante della crisi e dei provvedimenti di taglio del welfare, spesso adottati dai Comuni in conseguenza dei tagli europei e nazionali della spesa pubblica.

Soprattutto, l’esperienza ormai consolidata della contrattazione sociale territoriale costituisce un’alternativa praticata e praticabile alle esibizioni di autosufficienza della politica e dei governi che vengono di continuo ripetute a livello nazionale. Va tuttavia rilevato che la crisi ha accentuato le diseguaglianze fra territori, comunità e persone: per reddito, occasioni di lavoro, diffusione e qualità dei servizi di welfare. Pensare che possa generarsi una ripresa economica che prescinda da queste disparità è un grave errore che produce equivoci. Se in gran parte d’Italia non esiste la coesione sociale (e istituzionale) e quindi le condizioni di benessere e di legalità minime per attrarre investimenti, non sarà mai possibile che il ritmo di crescita del resto del Paese sia così intenso da compensare queste disparità.

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Da tempo, con il suo Piano del lavoro, la Cgil sostiene che produrre una crescita stabile, diffondere l’innovazione (recuperare i ritardi), ridurre le diseguaglianze (sociali e territoriali) e creare lavoro di qualità sono esattamente la stessa cosa per un Paese industriale e avanzato come l’Italia, non scelte politiche alternative fra loro, come ritiene il pensiero economico liberista europeo e nazionale. Rovesciamo il ragionamento: nessuna cosiddetta riforma economica e sociale (o legislativa) è da considerarsi utile se non ha effetti di riduzione del divario Nord-Sud e del tasso inaccettabile di disoccupazione giovanile stabilizzatosi in questi anni a quote talmente alte da sottrarre un’intera generazione di giovani a una prospettiva di vita e lavoro dignitosi.

Invece che immaginare crescite da domanda estera in grado di trascinare anche la ripresa delle aree meno

http://www.rassegna.it/articoli/recuperare-i-ritardi-e-ridurre-le-diseguaglianze

 

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L’economia delle diseguaglianze

Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%. I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia […]

di Andrea Baranes

Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan “siamo il 99%” probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.

Sempre secondo il rapporto “An economy for the 1%”, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.

Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. E’ un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3$ l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli USA lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.

In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’OCSE ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di PIL in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del PIL. E’ il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.

L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più. E’ l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).

Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la NASA scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.

A chi deve esportare una UE che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.

I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% – anzi, di quel zero virgola – che continua a guardare dall’alto,.

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