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Stagnazione, bilancio dello Stato e prospettive

2012-11-gianninoGuardando alla finanza pubblica relativamente al 2016, per una volta lasciamo da parte la polemica politica. Chi scrive avrebbe preferito una legge di Stabilità in cui concentrare su imprese e lavoro anche gli sgravi riservati ad altro, e tagli di spesa incisivi invece di accrescere il deficit. Ma l’informazione esiste innanzitutto per spiegare, prima di criticare, le convinzioni dei soggetti che “fanno” la politica di spesa e di entrata.

Ecco perché bisogna cercare di capire il punto di vista non solo “politico” di Renzi, ma quello più tecnico del ministro Pier Carlo Padoan. Il ministro l’ha ammesso, pochi giorni fa: la sua analisi dell’economia nazionale e internazionale si riconosce nel filone della «stagnazione secolare». Per chi si occupa di teoria economica, era evidente sin dall’inizio. Il contributo più originale del ministro Padoan ai documenti governativi è avvenuto nei due Def a sua firma. In entrambi i casi il capitolo più importante era relativo alla contestazione di come l’Unione europea calcoli l’output gap, la differenza tra la crescita reale e quella potenziale, raggiungibile senza «troppa» inflazione con il miglior utilizzo di tutti i fattori produttivi. E’ il punto centrale di chi è convinto che tutti i paesi avanzati siano alle prese non con un problema ciclico dovuto a troppi alti debiti – dello Stato, delle banche, delle imprese, in un mix diverso a seconda delle macroaree – bensì con un problema strutturale.

Larry Summers, Paul Krugman e tanti altri lo affermano da un paio d’anni. Che cosa pensano, in sintesi? Tre cose. La prima è che se la crescita potenziale sta diminuendo in tutti i paesi avanzati, ciò si deve a fattori di lungo periodo: come la minor forza in termini di crescita della produttività dell’innovazione tecnologica attuale rispetto a quella “rivoluzionaria” di altre precedenti ondate storiche; la demografia compromessa, che sposta in avanti redditi, consumi e investimenti. La seconda è che nel medio periodo buoni tassi di crescita con miglior utilizzo di lavoro e impianti si mostrano compatibili con un tasso d’interesse “naturale” significativamente più basso di quello del passato. La terza discende delle prime due: ecco perché occorrono politiche monetarie e di bilancio non ortodosse, cioè tassi d’interesse zero o negativi per lungo tempo, e nella politica di bilancio più deficit e debito (con alcuni accorgimenti), per sostenere la zoppicante domanda.

La Legge di Stabilità 2016 targata Renzi-Padoan nasce da queste premesse. Per questo alza il deficit rispetto al previsto, per questo contesta in Europa alcuni pilastri delle regole comuni (vedi l’ideuzza lanciata come en passant da Padoan in una sua recente intervista: «Perché non utilizziamo a favore della sostenibilità bancaria il fondo salva-Stati?», roba che ai tedeschi viene subito un ictus). Per questo concentra molte risorse su misure volte a «creare fiducia», invece di preferire quelle con maggiori effetti a breve di crescita. Infine, per questo il governo lancia una molto discutibile maxi-Cdp come versione pubblica di una grande Mediobanca di Stato, nella convinzione che gli investimenti privati resteranno asfittici.

Quando l’economista americano Alvin Hansen lanciò questa stessa teoria nella seconda metà degli anni Trenta, la tecnologia successiva lo smentì, e pure la demografia. Ma di mezzo ci fu un colossale acceleratore di risorse pubbliche (e stragi): il secondo conflitto mondiale. Motivo per il quale oggi i sostenitori della stagnazione secolare affermano che a maggior ragione dobbiamo adottare politiche monetarie e di bilancio ancor più lasche, non pensare certo alla guerra.

Chi dissente dai “secolari” pensa sia meglio alzare la produttività, cambiare il welfare, spendere meno pubblicamente e lasciare più risorse all’economia. Ma visto che il governo ha scelto diversamente, diciamo almeno che la scommessa di Padoan starà in piedi nel 2016 se si verifica almeno una grande condizione. E cioè se la deflazione che continuiamo a importare dall’andamento delle commodities a cominciare dal petrolio; il rallentamento del commercio mondiale figlio della crisi degli ex emergenti (Brasile, Argentina e via continuando) e della frenata cinese; nonché le grandi crisi geopolitiche che dal Medio Oriente si riverberano in tutto il mondo, se tutto questo appunto non produrrà una nuova crisi nella finanza mondiale. E in un mondo tanto interconnesso, il rischio c’è eccome. Una nuova crisi esporrebbe di nuovo in maniera asimmetrica soprattutto chi è gravato da un elevato debito pubblico e resta a produttività troppo più bassa di quella degli altri paesi avanzati: come l’Italia, appunto.

La crisi post 2008 ha portato al più rapido aumento del debito pubblico in rapporto al Pil nelle economie avanzate dopo la seconda guerra mondiale, in media dal 78% nel 2007 al 114% del 2014. La riduzione di debiti di tale entità diventa obiettivo oggi ancora più lontano, a causa della bassa crescita che si prospetta nel prossimo decennio. E’ bene fare così, dicono i “secolari”. I dati storici alle nostre spalle attestano invece che, quando le nazioni non riducono sufficientemente il deficit se il tasso di crescita economica di lungo periodo cala in modo inatteso, aggravano poi le loro prospettive di medio periodo: vedi il Giappone. Ma ciò è accaduto perché non sono stati abbastanza coraggiosi nel perseguire linee non ortodosse, replicano i “secolari”. E, tornando all’oggi, indicano per esempio l’asimmetria in Europa tra una Bce che s’inventa sempre nuove misure per sostenere credito e crescita, e una regolazione bancaria che con il rafforzamento dei coefficienti di capitale bancari ottiene invece l’effetto opposto.

Fermiamoci qui. Per Renzi contano soprattutto i consensi. Ma per Padoan questa sfida intellettuale tra vecchie e nuove scuole conta anche più di un eventuale infrazione europea alle regole comuni. Perché quelle regole a suo avviso sono sbagliate, in quanto figlie di un passato che oggi è mutato strutturalmente, anche se naturalmente non lo si può dire a Bruxelles e a Berlino con la brutalità che si può permettere chi, come noi, ha solo il compito di raccontare.

OSCAR GIANNINO