Il peso delle parole nel secolo 2.0
Dorothy: “Come fai a parlare se non hai il cervello?”.
Spaventapasseri: “Ah, non ne ho idea… ma c’è un mucchio di gente senza cervello che chiacchiera
sempre…”.
Judy Garland e Ray Bolger, in Il mago di Oz, 1939
Quale valore dare alle parole? Un dilemma tornato di recente d’attualità con la decisione del Presidente
Obama di ridenominare il monte McKinley, vetta più alta del continente, nel nome originario di Denali, la
montagna non cambia nella sua immutabile imponenza, il sentire comune, a quanto pare, sì. I precedenti
sono illustri, basta cambiare regime per vedere tornare in auge nomi persi nel tempo e carichi di ricordi,
non sempre graditi, e di storia, Volgograd e Stalingrado, Leningrado e San Pietroburgo, zar e comunisti uniti
dai nomi dei luoghi, i luoghi non cambiano, i sentimenti sì.
Siamo in una epoca di continuo parlare, chat, tweet, talk show, blog, un cinguettio continuo ed ossessivo
che si traduce nella vita di tutti i giorni, la dote imperante è di riuscire ad imitare il paradosso dello
spaventapasseri, parlare tanto senza dire niente. Se questo era appannaggio dei politici, discorsi fiume
combinati ad arte per non irritare mai nessuno, è diventato un bene comune, riuscire ad avere
conversazioni con persone che non ti facciano morire dalla noia è diventato raro come trovare una vergine
maggiorenne a New York City. In un recente studio dell’Istat si pose in evidenza come se l’analfabetismo è
praticamente debellato, relegato ad un 5%, bisognava assommare un buon terzo degli italiani che non
comprende le informazioni che recepisce, ed un altro abbondante terzo che non riesce ad elaborarle, le
recepisce, ma non riesce a capirle, il tutto porta ad un tasso di “ignoranza” del 70%, in un paese il cui tasso
di lettori è pari alla percentuale di votanti leghisti a Napoli non deve poi stupire più di tanto.
“Ci sono parole che fanno più male di uno schiaffo” declama una poesi di Guelluy, è il peso specifico, si
usano le parole per incidere ferite profonde pensando poi che queste passino finita la rabbia. Magari
abbozzi, ma invece restano lì, sedimentate, sono l’humus del dolore futuro, si accettano scuse, si concede
perdono, è il ricordo che non conosce tregua, la ferita interna che suppura, si infetta e marcisce
lentamente. La leggerezza dell’uso della parole si tramuta in zavorra della vita. La vecchia battuta da social
“Senz’altro sarebbe meglio accendere il cervello prima di attivare la lingua” potrebbe essere una delle cose
più intelligenti uscite dal magma del web.
MAURIZIO DONINI